I segreti di Papa Wojtyla

QUALI SEGRETI CUSTODIVA KAROL WOJTYLA?

 

Il 2 aprile abbiamo ricordato il settimo anniversario della scomparsa di Giovanni Paolo II, tra qualche settimana, il 1 maggio, ricorderemo il 1° anniversario della sua beatificazione voluta da Benedetto XVI. Durante queste brevi vacanze pasquali ho avuto modo di leggere due ottimi libri sul papa polacco di Cracovia, I segreti di Karol Wojtyla di Antonio Socci, e Il miracolo di Karol di Saverio Gaeta. Sono stato impressionato soprattutto dal primo anche perché non conoscevo alcuni aspetti della vita di Giovanni Paolo II. Mi riferisco ai segreti che custodiva e perché fino a oggi sono rimaste sconosciute. Il libro di Socci fa riferimento alle esperienze mistiche di Giovanni Paolo II, alla sua forza spirituale che è riuscita a cambiare il mondo, in particolare quello sotto l’impero sovietico. Socci scrive del presunto disastro nucleare imminente, scongiurato grazie all’intervento di Karol Wojtyla.

Giovanni Paolo II è il primo slavo sulla Cattedra di Pietro, primo straniero da 500 anni, uno dei papi più giovani per uno dei pontificati più lunghi della storia della Chiesa, un Papa proveniente da un Paese dell’Est, il Papa che ha abbattuto i sistemi totalitari del blocco comunista, cambiando la storia del mondo, il Papa che ha portato la Chiesa nel terzo millennio e che, con la sua personalità, ha ridato forza al Papato suscitando lo stupore e l’ammirazione di tanti popoli, insieme all’odio di chi ha cercato di assassinarlo sul luogo stesso del martirio di San Pietro.

Il libro di Socci parla di un pontificato misteriosamente annunciato e accompagnato da una serie stupefacente di profezie, di mistici, di avvenimenti soprannaturali e di manifestazioni della Madonna. Evidente il rapporto di Karol Wojtyla con uno dei più grandi mistici del XX secolo, padre Pio da Pietrelcina. A cominciare dal suo viaggio nel 1948 a S. Giovanni Rotondo, per confessarsi dal frate. Pare che Padre Pio avrebbe svelato allo stesso Wojtyla che sarebbe diventato Papa, anche se poi lui ha negato questa profezia. Un particolare destino tra Wojtyla arcivescovo di Cracovia, il Papa Paolo VI e il frate del Gargano si ha attorno all’evento che provoca la tempesta sull’enciclica Humanae vitae, il documento contro la contraccezione che ha lasciato Paolo VI solo di fronte agli attacchi e dure critiche anche all’interno del mondo cattolico. Il 5 gennaio 1969 sulla prima pagine dell’Osservatore Romano appare un lungo articolo, firmato proprio, dall’arcivescovo di Cracovia Wojtyla per commentare e spiegare l’importanza dell’enciclica. Poi c’è padre Pio, che in quel momento drammatico per il pontificato, il 12 settembre 1968, dieci giorni prima di morire, indirizza una lettera pubblica al Papa. “L’evento è del tutto insolito e va compreso. Mai padre Pio aveva fatto una cosa simile. Quali ne erano le ragioni? Si domanda Socci. Principalmente la terribile crisi che stava esplodendo nella Chiesa. Il postconcilio, come ebbe a dire Paolo VI, si rivelò essere, anziché l’alba di un giorno radioso, una giornata buia e tempestosa. Soprattutto con la pubblicazione dell’enciclica Hunanae vitae, sulla crescita demografica del mondo e sulla morale sessuale, esplose tutta la carica di ribellione al Papato che stava covando dentro la Chiesa, anche tra teologi e pastori”. (pag.98)

Il pontefice si trovò solo, incompreso e sotto attacco, padre Pio con la lettera, corse in difesa del Santo Padre e della Chiesa minacciata da una delle crisi peggiori della sua storia. Non solo il frate si offriva come vittima in difesa del Papa e della Chiesa, così dopo cinquant’anni esatti di crocifissione, padre Pio morì improvvisamente il 23 settembre del 1968. Qualcuno ha scritto: “Padre Pio è morto di crepacuore per qual che succede nella Chiesa di Dio “. Da quel momento gli anni del pontificato di Paolo Vi trascorrono nel dolore, circa 70 mila sacerdoti lasciano l’abito e altrettante religiose abbandonano i chiostri. Erano gli anni dell’autodemolizione della Chiesa.

Ma ritorniamo a Karol Wojtyla, al papa missionario, con i suoi numerosi viaggi in 27 anni di pontificato. “Potremmo dire che si è letteralmente dato in pasto, perché gli uomini hanno bisogno di incontrare un volto concreto in cui riconoscere Gesù”. (pag. 105) Il grande filosofo contemporaneo, Renè Girard, definisce Giovanni Paolo II, un grande conquistatore di folle. Bisogna risalire ai grandi papi medioevali per trovare un pontefice con una personalità altrettanto incisiva, sconvolgente e carismatica. Anzi, per Socci, forse neanche i papi medioevali reggono il confronto con Karol il Grande.

Tra la serie di profezie, Socci cita quella di un sacerdote napoletano Dolindo Ruotolo, morto nel 1970, fu un mistico simile a padre Pio, in una lettera ravvisava la venuta di un Papa polacco che ci avrebbe liberato dal comunismo. “Il mondo va verso la rovina, ma la Polonia come ai tempi di Sobieski, per la devozione che ha al mio cuore, sarà oggi come i 20.000 che salvarono l’Europa e il mondo dalla tirannia turca. Ora la Polonia libererà il mondo dalla più tremenda tirannia comunista. Sorge un nuovo Giovanni, con una marcia eroica spezzerà le catene, oltre i confini imposti dalla tirannide comunista”. Dodici anni dopo, in effetti, dalla Polonia, sarebbe venuto “un nuovo Giovanni”, eroe disarmato, che avrebbe abbattuto, il più vasto, duraturo e mostruoso impero ateo e persecutore dei cristiani della storia, il comunismo. Il caso vuole che don Karol Wojtyla, il 2 novembre 1946, ha celebrato la sua prima messa nella cattedrale di Wawel, nella cripta di S. Leonardo, il cuore della nazione polacca, qui riposano re, regine, vescovi, poeti, ma soprattutto riposa re Giovanni III Sobieski. Wojtyla nel secondo viaggio in Polonia diceva ai polacchi riuniti a Varsavia: “come la Polonia salvò nel 1683 l’Europa dai turchi, così essa libererà un giorno l’Europa dal comunismo”.

 Per Giovanni Paolo II la caduta del comunismo e la liberazione delle nazioni dal gioco del totalitarismo marxista è stato come una grazia divina, voluta dalla Madonna di Fatima, che lei stessa aveva chiesto al Papa l’affidamento della Russia, compiuto il 25 marzo 1984. Secondo Socci siamo di fronte a due miracoli: il primo, senza alcun atto di violenza, da uomini inermi è stato spazzato via il più feroce impero armato fino ai denti. Il secondo: l’impero sovietico non ha scatenato una guerra che sarebbe stata certamente nucleare. Dunque, Giovanni Paolo II ci ha salvati dal comunismo ma anche da una ecatombe nucleare. Sarà un caso ma l’atto di affidamento alla Madonna di Fatima pare che abbia scongiurato una catastrofe planetaria, infatti il 13 maggio 1984, accade un incidente a Severomorsk, nel Mare del Nord, il potenziale sovietico atomico viene messo fuori uso. Sembra la firma della Madonna di Fatima così come avvenne il 13 maggio 1981, quando Maria salvò il Papa dalla pallottola del killer turco Ali Agca.

Per Socci però la minaccia nucleare resta. Giovanni Paolo II continuò sempre ad avvertire della possibilità di una “autodistruzione incalcolabile” del mondo.

Il secondo volume che ho letto traccia le qualità soprannaturali del beato, forse ancora tutte da scoprire. Per i funerali di Giovanni Paolo II, l’allora cardinale Ratzinger poteva dire: “Possiamo essere sicuri che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice”, e pare così viste le numerose testimonianze di grazie attribuite alla sua intercessione.

 

Rozzano MI, 11 aprile 2012

Festa di S. Stanislao vescovo e martire.                                                               

      DOMENICO BONVEGNA

                                                                                        domenicobonvegna@alice.it

L’INSORGENZA PALERMITANA DEL “SETTE E MEZZO” DEL 1866

L’INSORGENZA PALERMITANA DEL “SETTE E MEZZO” DEL 1866. UNA STORIA POCO CONOSCIUTA.

Così come il 1862 anche il 1863 si caratterizza all’insegna della repressione degli stati d’assedio e delle nuove tasse. L’anno finanziario si chiude con deficit di 446.000.000 che il Tesoro cercò di colmare ricorrendo al prestito forzoso, con nuove tasse e pesanti balzelli. Sembra l’Italia di oggi dell’era Monti-Napolitano. L’Italia prima del 1860 era il museo delle arti, ora è diventato il museo delle tasse. Dal 1860 al 1862, la Sicilia ha subito un’autentica “spremitura”, senza contraccambi per la Sicilia, anche attraverso i “contributi diretti”. Le quote individuali di contribuzione fiscale dell’erario passarono da 18 lire annuali al 4 aprile 1860, a 48 lire con il nuovo Regno, con un aumento del 166%”.

Giuseppe Marino descrive il 1862, un paradosso della libertà illiberale per la Sicilia. Sostiene che “dal 1862, la Sicilia era stata praticamente governata con lo stato d’assedio, col bell’effetto di un crescendo delinquenziale che a sua volta provocava un crescendo di interventi repressivi (…)Le pagine dei giornali ed opuscoli del tempo sono piene di denunce contro la crudeltà delle autorità governative e di polizia. Rispetto al passato borbonico, scriveva qualcuno, la libertà aveva marciato a ritroso”. (pag.94)

In questo periodo il generale Govone chiese e ottenne dal Governo centrale l’autorizzazione a mettere “ordine” in Sicilia, cominciò con Caltanissetta, accerchiandola. Tutti coloro che fossero stati incontrati nella campagna e nei paesi “dall’età apparente del renitente o col viso dell’assassino”, sarebbero stati arrestati. A Licata, il 15 agosto 1863, il maggiore Frigerio, comandante di un battaglione di fanteria, intimava alla popolazione che “se l’indomani alle ore 15 non si fossero costituiti i renitenti e i disertori, avrebbero tolto l’acqua, e ordinato che nessuno potesse uscire di casa sotto pena di fucilazione e di altre misure di più forte rigore”. Una ordinanza a dir poco barbara. Si sono verificati altri casi terribili in Sicilia in quell’anno come quello che è successo al sordomuto palermitano Antonino Cappello. Il poveretto ritenuto renitente alla leva, poiché si riteneva fingesse  non parlando, furono inflitte 154 bruciature di ferro rovente in tutto il corpo. “Il suo aguzzino – scrive Romano – degno di un persecutore in un gulag o in un lager del XX secolo – fu il medico divisionale del Corpo Sanitario Militare Antonio Revelli, poi insignito dall’Ordine sabaudo dei santi Maurizio e Lazzaro”. (pag.99)

In poco più di un anno furono ben 154 i comuni circondati e posti in stato d’assedio e poi perquisiti, lo scrive Giancarlo Poidomani, su 20.000 renitenti, vennero arrestati 4.000. Il libro di Romano ne descrive alcuni, il 26 agosto quello di Salemi, ci pensa il 48° Reggimento Fanteria del maggiore Raiola, che cinse la città per tre giorni, chiudendo l’acqua potabile. “Si ricercano i renitenti e, in assenza, si arrestano madre, padre, sorelle, fratelli, che legati come malfattori o galeotti sono trascinati in carcere. Si arresta senza discernimento. Si arrestano i parenti sino nei più lontani gradi, gli amici e chi niente ha in comune col renitente ma che lo vide nascere”. (pag. 104). Le varie operazioni militari che miravano a controllare il territorio nelle province di Palermo, Trapani e Girgenti, portarono all’arresto dei facinorosi, dei disertori e renitenti, con eventuali rappresaglie sulle famiglie. Tra le tante disposizioni emanate, “si può leggere questa perla di ‘diritto’ – scrive Romano – ‘L’autorità politica ha prescritto che ogni cittadino assente dal proprio comune sia munito di una carta di circolazione. Tutti coloro che alla distanza di un chilometro dal paese ne saranno trovati sprovvisti verranno arrestati, né si rilasceranno prima che il Sindaco alla presenza del Delegato di Sicurezza Pubblica  e del Comandante la stazione dei R. Carabinieri abbia assicurazioni sulla loro moralità”. (pag.115) Questa è la sublime libertà che i nuovi giacobini venuti dal Nord, hanno regalato ai siciliani che erano soggiogati dalla presunta tirannia borbonica.

Una dichiarazione di un insospettabile, Francesco Crispi, scrivendo a Garibaldi, dichiara: “Ho visitato le carceri e le ho trovato piene di individui che ignorano il motivo per cui sono prigionieri. La popolazione in massa detesta il governo d’Italia”.

L’VIII capitolo del libro, Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere, del professore Tommaso Romano, lo dedica all’insorgenza palermitana del “Sette e mezzo” nel 1866. Per Romano la rivolta palermitana del Sette e mezzo è sicuramente l’insorgenza popolare corale più importante del decennio 1860/70 che coinvolse  e sconvolse la provincia di Palermo nel settembre 1866, con taluni focolai di manifesto dissenso antigovernativo in altre provincie della Sicilia occidentale. Il professore Romano ribadisce che in Sicilia come nel resto del Meridione, c’era in atto una strisciante guerra civile che non ha risparmiato quasi nessun centro, grande e piccolo dell’isola. Il nuovo potere non incontrò il consenso e l’entusiasmo popolare, anche se all’inizio seppur in modo non maggioritario, soprattutto i contadini avevano creduto in Garibaldi, considerandolo quasi un novello redentore, distributore di ricchezze a poco prezzo. “Gli eccidi fraterni fra le parti del processo rivoluzionario in Sicilia, e cioè i garibaldini e i governativi, fecero uscire molti dall’incantamento e prevalse così il realismo(…)”Alla fine oppositori, renitenti e disertori si unirono a fuorilegge che poco o nulla avevano in comune con questi e che tuttavia l’ansia per una supposta ‘giustizia’, orientava verso bande armate”.

Il brigantaggio siciliano fu un fenomeno complesso, quasi sempre liquidato come criminale e mafioso sic et simpliciter. A inizio di luglio del 1866, addirittura, si era formato un Comitato per l’insurrezione col fine di rimettere sul trono di Sicilia Francesco II, anche se per comodità strategica i suoi componenti si mimetizzavano spacciandosi per repubblicani. Per Romano, occorre tenere presente nello scenario che prepara il movimento insurrezionale del Sette e mezzo anche altri protagonisti come gli ex garibaldini, i mazziniani-repubblicani, radicali, intellettuali anarchici, socialisti, regionisti con componenti autonomiste e separatiste, mentre nel mondo cattolico, molti vescovi e buona parte del clero e degli Ordini religiosi intransigenti che seguivano l’insegnamento e gli ammonimenti controrivoluzionari del Papa Pio IX e del suo braccio dottrinale, la Civiltà Cattolica.

Tra le varie cause fondanti della rivolta del “Sette e Mezzo, secondo Romano vi fu certamente la legge Siccardi, famigerata per la soppressione degli Ordini religiosi, conventi, Confraternite, che applicata all’isola, ha provocato forte sdegno tra la popolazione. Infatti la legge del 7 luglio non faceva che favorire l’ascesa della nuova borghesia rapace per la vendita di beni ecclesiastici a prezzi irrisori, ma proibitivi per impiegati e contadini”. Alla prossima.

 

 

Rozzano MI, 25 marzo 2012

Annunciazione del Signore.                                                                                       

   DOMENICO BONVEGNA

                                                                                          domenicobonvegna@alice.it

Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere

Domenico Bonvegna mi invia questo contributo:

REPRESSIONE DELLE RIVOLTE POPOLARI E AZIONE ANTICLERICALE CONTRO LA CHIESA IN SICILIA.

Sto presentando il libro di Tommaso Romano, Sicilia 1860-1870. Una storia da riscrivere, edito da Isspe. Prima della rivolta di Palermo occorre ricordarne altre come quella del 19 marzo 1866 di Canicattì, di Monreale, dove i rivoltosi esibivano come loro simbolo il Crocifisso, il ritratto di Francesco II, del Papa, le bandiere gigliate e tricolori senza stemma sabaudo. Altri centri insorsero come Villabate, Bagheria, cruenta l’insurrezione di Misilmeri a pochi chilometri da Palermo, dove i rivoltosi gridavano Bedda Matri, viva la Religione, Viva S. Giusto. Dal 22 settembre al 2 ottobre si svolsero ad Adernò (l’odierna Adrano) le cosiddette cinque giornate. Infine, altre rivolte a Santa Maria dell’Ogliastro, Villafrati, Bisacquino, Piana dei Greci e tanti altri centri. “Comune a tutti gli insorti era quindi il nemico principale contro cui insorgere e contro cui ribellarsi e che il popolo, senza tante disquisizioni ideologiche o istituzionali, sentiva come il morso impellente che l’attanagliava, insieme alla nuova povertà frutto anche di un liberalismo economico e centralista che privilegiava solo i possessori di capitali, i grandi manovratori di interessi, gli usurai che pure erano attivissimi, i nuovi capitalisti alleati con gli inglesi anche in Sicilia, trasformisti che da repubblicani e federalisti, come Crispi, si ‘scoprirono’ monarchici e unitaristi”. (pag.127)

Ritorniamo alla rivolta del “Sette e Mezzo” a Palermo, il generale Cadorna ammise che dal momento dell’inizio della rivolta “le bande siano rimaste padrone della città, eccettuato il forte di Castellamare, il carcere, le finanze, il palazzo reale ed il palazzo di città, che restarono sotto il controllo dell’autorità militare”. Le principali vie di Palermo erano in mano gli insorti. “Scontri violenti si svolsero in quei giorni fra gli insorti e le truppe di Masi, Angioletti e Riboty (quest’ultimo alla testa dei marinai) particolarmente nella zona dell’Orto Botanico, di Piazza Marina, dei Quattro Canti di Campagna. Dal convento di San Francesco di Paola si aprì il fuoco contro i governativi – scrive Romano – al comando del generale Cadorna per sedare la rivolta, gli effettivi raggiunsero la quota di 40.000 uomini. Inoltre, la città fu cannoneggiata dalle navi della Regia Marina ed anche da una nave inglese (!) presente nel porto di Palermo”. (pag.143)

In quei giorni Palermo fu teatro di una guerriglia vera e propria, “la città fu un campo di battaglia, con larga partecipazione di tutti i ceti sociali alla rivolta, ma con preponderanza del ceto popolare e con significativa presenza di religiosi, lo stesso Cadorna attesta infatti che ‘parecchi frati hanno preso parte nei combattimenti, in mezzo alle squadre di malandrini”. Gli insorti gridavano indifferentemente nelle strade viva la Repubblica, evviva Santa Rosalia e i monasteri, Evviva Francesco, innalzando bandiere rosse e bianche, il crocefisso e gli stendardi delle Confraternite defraudate dalle leggi avversive”. (pag.145) L’ideologo della rivolta, secondo Romano fu monsignor Gaetano Bellavia, borbonico noto a Questure e Prefetture e poi naturalmente Vincenzo Mortillaro. Le operazioni della rivolta erano in mano a Francesco Bonafede. Alla fine della rivolta si contarono un migliaio di morti tra i rivoltosi, i caduti governativi invece furono circa 200, 87 feriti gravi e 142 leggeri. Dopo la rivolta si registrarono atti di brutale violenza, crudeltà e vendetta da parte dei regi, con uccisioni indiscriminate. Il 25 dicembre il Questore di Palermo ripristinò la famigerata “carta di circolazione”, un passaporto interno, per delimitare i quartieri palermitani, oltre i quali il documento era necessario. A conclusione del capitolo VIII, il professore Romano fa parlare Salvatore Natoli e Maria Rosaria De Stefano Natoli che nel loro libro, La Nazione che non fu, scrivono: “sei anni dopo l’annessione, la situazione siciliana di quel momento ha molte analogie con le guerre di insurrezione della Vandea e la rivolta del Sette e Mezzo ha molti punti in comune con la battaglia di Savenay specie nelle cause; anche il fatto scatenante è l’obbligo di leva per trecentomila francesi: è il 1793, settantatré anni prima”. Dunque le sette giornate di Palermo del 1866 non possono essere ridotte a un episodio anarcoide o di malandrinaggio collettivo, certamente si trattò di vera Insorgenza popolare. (pag. 156)

Il libro di Romano dà molto spazio alla repressione e all’azione anticlericale contro la Chiesa del nuovo governo sabaudo piemontese. Le vere vittime della rivoluzione risorgimentista furono le case, gli istituti religiosi, i monaci, le monache e i sacerdoti. “Mai in Sicilia, scrive Maria Teresa Falzone, se si esclude il periodo della dominazione araba, vi era stata una soppressione così violenta e di così ampia portata”. Il nuovo regno d’Italia, attraverso leggi di spoliazione e di laicizzazione colpì pesantemente la Chiesa in Sicilia e proprio queste leggi “furono ulteriori causa di malcontento e indignazione popolare che sfociò in insorgenze vere e proprie, per ciò che si appalesava come un attentato alla fede millenaria, alla tradizione, all’identità profonda e alla stessa sussistenza che le opere di carità della Chiesa favorivano per migliaia di persone con il lavoro nelle chiese e nelle istituzioni cattoliche (circa diecimila persone solo a Palermo).

Sulla soppressione (sarebbe più esatto scrivere ladrocinio) degli istituti religiosi, il più esaustivo e mirabile studio-ricerca è quello di Salvatore Cucinotta, col suo Sicilia e Siciliani. Dalle riforme borboniche al rivolgimento piemontese. Soppressioni (Edizioni Siciliane, Messina, 1996). “Un volume di oltre settecento pagine ignorato dagli storici conformisti che nonostante abbia veramente colmato una grave lacuna risulta tuttavia assai difficile da reperire”. Io molti anni fa ne ho visto una copia a padre Giuseppe Tatì a S. Alessio.

Vittorio Emanuele II, il 18 febbraio del 1861, ai 47 deputati siciliani ricordò la necessità di nuovi fonti finanziarie, che significava che “non solo si attingeva alle riserve auree copiose sottratte dall’ex Regno delle due Sicilie, ma si puntava al cuore delle casse e del vasto patrimonio della Chiesa per armare lo Stato, imporre la lunghissima e costosa coscrizione obbligatoria, onde usarla contro i briganti e i legittimisti del Sud”. (pag. 180)Non solo ma la finalità del nuovo Regno, a detta di molti suoi esponenti, era la completa laicizzazione dell’Italia, per Romano, ma anche per tanti altri studiosi e storici cattolici, si puntava dritti al cuore della Cristianità, per disintegrarla e poi annientarla. “Non sarà inutile ricordare che nel 1860 ben sessanta vescovi furono cacciati dalle loro diocesi nel Meridione perché accusati di legittimismo filo-borbonico e che, nel 1863, finirà in carcere per aver difeso i diritti del Papa Pio IX, il vescovo di Spoleto Giovanni Battista Arnaldi. Destino che toccherà nel 1867, anche al vescovo di Monreale, Benedetto D’Acquisto”. Con le leggi sulla soppressione- cancellazione di tutti gli ordini religiosi, secondo il Cucinotta, furono calpestati i principi del diritto naturale, dello Statuto e del Codice Civile (…)L’obiettivo era -sempre secondo Cucinotta – di azzerare quel tessuto socio-religioso che per secoli, in unità di libero e gratuito servizio, aveva unito il laicato e il mondo religioso, per cui con le soppressioni, in Sicilia non vi è più storia della Chiesa come storia della società”. (pag. 188)

Il mio racconto si ferma, non mi resta che invitarvi alla lettura del libro.

 

 

Rozzano MI, 30 marzo 2012

S. Leonardo Murialdo sacerdote.                                                                              DOMENICO BONVEGNA

                                                                                         domenicobonvegna@alice.it

I Cristiani di Adana e il genocidio armeno

Un contributo di Domenico Bonvegna:

Lo storico inglese Robert Conquest ha definito in un libro il Novecento, il secolo delle ideologie assassine; in soli 100 anni, le ideologie, figlie del giacobinismo della Rivoluzione Francese, da quella socialcomunista a quella nazionalsocialista, hanno provocato milioni di morti. Non solo le ideologie, anche il fondamentalismo religioso ha provocato le sue carneficine. Pensate i cristiani uccisi a causa della loro fede, nel solo novecento, secondo Antonio Socci, sono stati ben 45 milioni. Proprio all’inizio del secolo, in tre fasi, fino al 1920, oltre un milione di Armeni, per lo più cristiani, sono stati annientati dai turchi. Quello degli armeni è un genocidio poco conosciuto e forse ancora da ben documentare, come evidenzia il libro che ho appena finito di leggere, Grande Male. Medz Yeghern. Turchia 1909. Un testimone del massacro degli Armeni, pubblicato dalle edizioni San Paolo (p.192, 2008), scritto dal giornalista francese, Raphael Stainville.

Il reportage di Stainville si snoda su due piani temporali diversi, ma paralleli, per una parte nel presente e per l’altra nel passato. All’inizio della narrazione il giovane giornalista di Le Figaro in viaggio a piedi da Parigi a Gerusalemme, viene ospitato da alcune suore italiane che si occupano della chiesa di San Paolo in Adana, città della provincia della Cilicia, nell’Anatolia sud-orientale, tre suorine missionarie, Antonia, Libera e Antonella, una di loro gli affida in lettura un misterioso manoscritto trovato tra le carte disordinate della povera biblioteca della chiesa e con voce ferma gli intima: “non tagliare nulla! Non una parola, non una virgola”. Nella nota introduttiva di Eleonora Bellini si legge: “All’apertura del manoscritto, incredulità e sgomento dapprima, indignazione e orrore poi, si impadroniscono di Stainville e l’aprile del 1909, nel quale si scatenarono i massacri degli armeni nella città di Adana e nella sua provincia, torna a vivere”.

Stainville ci tiene ad identificare l’autore del manoscritto, del diario, così ritorna in Turchia, e attraverso estenuanti ricerche, fatte di testimonianze, di fotografie e di documenti, riesce a risalire all’autore, è un padre gesuita del collegio San Paolo, padre Rigal. Infatti, il lavoro di Stainville, è un ottimo esempio di seria e scientifica ricerca storica.

Scrivendo questo libro, il giovane giornalista, si considera una specie di esecutore testamentario, ha trascritto il diario del gesuita che ha vissuto i giorni delle stragi dei poveri armeni. “La mia penna incerta – scrive il giornalista di Figaro – non ha fatto che ripassare sopra le lettere di sangue di un doloroso palinsesto”. Tutto inizia il  mercoledì di Pasqua del 1909. Ore undici del mattino. “Da ogni parte risuonava il lugubre grido: “Askna giaurs, askna!” (uccidete gli infedeli, uccideteli!)” Il primo a cadere fu un ricco armeno, David Ourfalian, un uomo si lanciò su di lui e non gli lasciò scampo: “in nome di Allah l’altissimo è da te che cominciamo. Crollò senza vita, mentre, nello stesso cortile del governatore, uomini venivano sezionati come maiali, sgozzati in un assalto all’arma bianca”(p.31). Il genocidio degli Armeni si situa in un contesto sociale già fortemente eccitato dal ritorno del mito della Grande Turchia, il governo ultranazionalista dei Giovani Turchi (autoproclamatosi peraltro espressamente come l’incarnazione in Turchia degli ideali rivoluzionari di liberté, egalité, fraternité), civili e militari turchi si diedero a efferatezze inaudite che in quei giorni sconvolsero gli stessi osservatori internazionali. I massacri di Adana segnano la seconda tappa di questo genocidio. L’ultima, quella decisiva, avverrà come noto nel corso della Prima Guerra Mondiale (1914-1918) quando, essendo le principali potenze europee impegnate al fronte, il regime dei Giovani Turchi avrà finalmente mano libera per risolvere una volta per tutte, come pure si esprimeranno cinicamente alcuni dei suoi dirigenti, la fastidiosa “questione armena”, quella cioè di un popolo che vuole rimanere a tutti i costi cristiano e rifiuta decisamente sia l’islam che l’ideologia panturchista.

I turchi hanno sempre sostenuto che la colpa del massacro è degli stessi Armeni perché si erano rivoltati prendendo le armi.  Gli armeni per sfuggire alla morte sicura cercavano rifugio nel collegio delle suore, mentre la sparatoria aumentava, “gli uomini cadevano per strada come mosche . Dalle finestre del dormitorio si poteva vedere la povera gente fuggire, sperduta, nei vicoli. Bambini andavano a sbattere contro i muri, spiaccicandosi contro con le braccia aperte, cadevano con il volto macchiato di sangue o il petto squarciato. I bachi-bouzuouks (cavalieri dell’antico esercito turco), in bande di trenta o quaranta, sparavano colpi di fucile alle gambe dei fuggiaschi per immobilizzarli, e poi li torturavano”(p.35)

Tra urla e grida il saccheggio delle case diventava metodico. “A colpi d’ascia, i banditi forzavano le porte (…) C’erano vittime da dilaniare e da torturare. Quando tutte le persone erano morte, gettavano i mobili, la biancheria, e gli oggetti più disparati in una carretta che stazionava per strada; la casa veniva ‘passata al petrolio’ con una pompa, le si dava fuoco e si procedeva alla successiva”(p.35).

Il racconto continua nel 5° capitolo, siamo venerdì 16 aprile. “Gli assalitori procedevano con metodo, avanzando progressivamente all’interno del quartiere armeno, facendo attenzione a risparmiare le case che avrebbero potuto trasmettere le fiamme alle case dei musulmani, radendo al suolo tutto il resto”(54).

Il diario di padre Rigal, che è un testimone oculare, fa una minuziosa descrizione di particolari di inaudita crudeltà e violenza, descrivendo i saccheggi nelle fattorie nei dintorni di Adana, a questo proposito il padre gesuita scrive: “Alcuni armeni furono crocifissi su tavole, assi, porte; alcune ragazze rapite, violentate o sventrate a colpi di coltello; donne e bambini scorticati vivi; indicibili crimini furono compiuti su bambine di sette od otto anni. I boia portavano in giro bimbi infilzati in cima alle baionette, giocavano con le teste mozzate di fresco; lanciavano per aria bambini piccolissimi e li raccoglievano sulla punta dei coltelli, sotto gli occhi dei genitori incatenati, quando non lasciavano cadere a terra i loro corpi contorti”(p. 63).  E’ una macabra descrizione che a volte, come lui stesso scrive, si astiene dai dettagli più orrendi. I feriti rifugiati dentro il collegio dei religiosi erano orribilmente feriti dai colpi d’ascia o di coltello, per non parlare delle pallottole ricevute. Le suore, che avevano organizzato un ambulatorio, prontamente cucivano e ricucivano le ferite dei malcapitati. “Chi non ha vissuto queste giornate non può farsi un’idea precisa dell’indicibile terrore che ci avvolse durante quei quindici giorni e quelle quindici notti di angoscia”.

Per i lettori italiani è interessante citare un passaggio di un articolo de La Civiltà Cattolica(E. Rosa,“Le recenti stragi di Adana”, 1909, II, p. 740): “ A poche miglia da una rada ove sorgevano corazzate di nazioni civili, da una città dove erano i loro consoli ed i loro rappresentanti, succedeva per mezzo mese un macello di popolazioni innocenti senza che una mano di uomini risoluti o un passo vigoroso di potenze europee valesse ad impedirlo”. La rivista dei gesuiti, che utilizzava informazioni di prima mano, provenienti dai propri religiosi missionari in Turchia (nel collegio maschile di Adana insegnavano in quell’anno una trentina di padri), faceva notare la responsabilità dei governi occidentali, il loro silenzio se non assoluto, le proteste tardive, distaccate, inefficaci.

Al termine del complesso reportage le lontane ombre dei crimini del secolo scorso sembrano così confondersi con le tante inquietudini del presente di un popolo, quello turco, che lotta per l’affermazione della propria identità, costantemente in bilico fra laicità e fondamentalismo, in un Paese dai mille volti in cui a sollevare la spinosa questione-armena resta oggi solo qualche manoscritto del passato. Eppure, nel Paese che accolse la prima evangelizzazione della Chiesa primitiva e che vide nascere l’apostolo delle genti (San Paolo), le chiese (le poche rimaste) esistono ancora, pur nascoste dai minareti, ma pubblicamente tacciono, come se fossero rimaste prigioniere di un passato che non passa.

Il Paese che meno di un secolo fa contava più di un milione di cristiani ora ne conta infatti poche migliaia, osservati con superficialità e trattati come uomini che non possiedono valore né dignità: derisi, umiliati, ghettizzati. Prima di quel mercoledì di Pasqua del 1909 la stessa Adana contava circa novecento famiglie armene, oggi in quel che resta delle case più volte distrutte e altrettante ricostruite sono rimasti appena ventotto uomini e sessanta donne.

 

 

Rozzano MI, 10 marzo 2012

Festa di S. Domenico Savio.                                                                                       DOMENICO BONVEGNA

                                                                                         domenicobonvegna@alice.it

Qualcosa di strano la sera del Santo Natale

C’è qualcosa di strano la sera del Santo Natale,
un’improvvisa tristezza accompagna il silenzio
e le luci si spengono come s’erano accese.
Terminata la festa gli istanti si raccolgono insieme
per scoprire che manca qualcosa,
che la festa non ha esaurito l’attesa;
non sono gli affetti a colmare il vuoto che urge,
la domanda si è fatta più pura, totale e struggente,  
è di Lui che il cuore ha bisogno, è solo di Lui!   

(Gianni Mereghetti)

Un anno di Bussola…

UN ANNO DI “BUSSOLA” PER COMBATTERE LA “BUONA BATTAGLIA”. 

 Distratto dal continuo bombardamento di notizie sulla manovra economica ammazzapoveri di Monti non mi ha permesso di raccontarvi dell’evento che ho assistito sabato scorso 3 dicembre, presso il Circolo della Stampa di Milano, si tratta del 1° Convegno del quotidiano online Labussolaquotidiana.it. Una giornata intensa di relazioni di alcuni collaboratori del giornale: una presentazione di affascinanti esperienze di fede, un’esperienza di popolo, l’ha definita il direttore Riccardo Cascioli, non tanto per il numero degli intervenuti – che pure era tutt’altro che irrilevante (la sala Montanelli era occupata in ogni ordine di posto) – quanto per l’atmosfera che si respirava: il riconoscimento di una unità che si fonda su quell’esperienza cristiana vissuta nella fedeltà alla Chiesa cattolica da cui nasce anche la Bussola Quotidiana”.

 Al mattino ha aperto i lavori del convegno padre Piero Gheddo , il decano dei missionari italiani, che ci ha fatto toccare con mano – con il racconto dei suoi viaggi nelle missioni di tutto il mondo – la realtà di un Vangelo che cambia la vita delle persone e dei popoli, facendo acquistare loro una dignità dapprima sconosciuta.
 Nel pomeriggio i lavori iniziano con la testimonianza di Vittorio Messori, il più grande giornalista cattolico vivente, intervistato da Andrea Tornielli, vaticanista de Il Giornale. Messori racconta la sua conversione, i successi editoriali sottolineando che la domanda sul significato della vita, la domanda su Gesù, sia sempre quella che più interessa gli uomini, a dispetto di quanto ritengono i giornali e le case editrici più importanti, comprese quelle cattoliche. A questo proposito Tornielli come esempio di forte interesse per la religione, riporta il grande successo che ha ottenuto la mostra sulle scoperte archeologiche di Cafarnao nell’ultimo Meeting di Rimini. In pratica secondo i relatori, c’è un forte interesse per l’al di là piuttosto che per l’al di qua. Messori confessa che lui è ancora legato ai libri, ai giornali, al cartaceo, al mondo di Gutemberg, però riconosce che il mondo di internet è un medium importante, non per niente la Chiesa lo ha utilizzato subito.
 Infine la tavola rotonda che ha lanciato la battaglia culturale contro l’aborto.
Era prevista la presenza di Giuliano Ferrara, ma all’ultimo momento il direttore de Il Foglio ha dovuto rinunciare per malattia. Per primo è intervenuto Massimo Introvigne, vice reggente nazionale di Alleanza Cattolica, in serata doveva recarsi a Vilnius, nella capitale lituana, per partecipare a un incontro internazionale essendo rappresentante dell’OSCE (Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa) per la lotta al razzismo e alla discriminazione contro i cristiani. Il professore Introvigne ha spiegato che per essere efficace una battaglia culturale contro l’aborto, prima bisogna avere le idee chiare su che cos’è una campagna culturale. Intanto ha definito il concetto di cultura, facendo riferimento al beato Giovanni Paolo II, che ha detto quella frase rimasta nella storia: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”. Pertanto, ha ribadito Introvigne, la cultura non è l’insieme delle biblioteche, dei musei; quando diciamo cultura intendiamo un modo di essere di una comunità, di una nazione, come quella della Polonia che è riuscita a sopravvivere a tutti gli attacchi subiti nel corso della Storia, grazie alla sua cultura. Quindi la Polonia c’era sempre, anche quando subiva le dominazioni, così come l’Italia, c’era anche prima dell’unità statale del 1860.

 Introvigne auspica una depurazione dell’idea di cultura trasmessoci dall’illuminismo. Il professore Plinio Correa de Oliveira, pensatore cattolico brasiliano, aveva ben chiaro come attraverso i fatti, le idee e le tendenze si riesce a creare nel bene o nel male, una cultura, uno stile di vita. Ma come si fa una campagna culturale? E qui Introvigne fa riferimento al recente viaggio del Papa in Benin, quasi completamente silenziato dalla stampa. Benedetto XVI parlando con alcuni giornalisti, ha spiegato perché le Comunità Pentecostali hanno raggiunto nel mondo gli oltre 500 milioni di adepti. Dobbiamo interrogarci e riflettere su questo aspetto: 1 si fanno capire; il discorso centra molto con internet. Immaginate se su labussolaquotidiana.it pubblicassimo l’estetica di Hegel, ha detto provocatoriamente Introvigne. Altro aspetto da considerare per lo studioso di Torino è quello di evitare tutto quello che può sembrare autoreferenziale e critica certi ambienti ecclesiali che sono ripiegati su se stessi, che magari producono ampi piani pastorali ma che poi nessuno legge, nemmeno gli addetti ai lavori. Per Introvigne è positivo che quasi tutti i collaboratori de Labussola non provengono dall’entourage ecclesiale.

 Il Papa auspica che la Chiesa sappia parlare alla gente, evitando il gergo ecclesiale. La questione dell’aborto è la questione delle questioni, non è una tra le tante e gli americani lo hanno capito bene. Del resto nell’enciclica sociale di Benedetto XVI, la Caritas in Veritate, all’origine di tutti i problemi c’è la Vita, se cominci a manipolare la vita, manipoli anche l’economia. Prima dello spread viene la vita, afferma Introvigne e ci tiene a sottolineare che, occuparsi dell’aborto non è una fuga dai problemi attuali della crisi economica.

 Ma come si fa a parlare della questione dell’aborto oggi? Pe rispondere a questa domanda, il professore Introvigne cita l’ultimo film di vampiri Breaking dawn. Prima parte, il film che sta realizzando incassi record in tutto il mondo, è il quarto della serie tratto dalla saga Twilight della scrittrice americana Stephanie Meyer. Solitamente nei film sui vampiri alle donne che s’innamorano di vampiri – per non parlare dei vampiri stessi – i romanzieri e gli sceneggiatori attribuiscono una sessualità disinibita e trasgressiva, Twilight ha avuto successo – afferma Introvigne – perché rovescia il cliché consueto. Mentre il mondo intorno a lui vive il sesso in modo casuale, il vampiro Edward – che avendo più di cento anni, anche se ne dimostra diciotto, è uomo di un’altra epoca – inizia la liceale Bella a una visione del mondo dove i rapporti prematrimoniali sono sbagliati e occorre attendere l’altare e l’abito bianco.

 Il professore Introvigne è convinto che oggi i ragazzi sono stanchi della trasgressione e che forse la morale tradizionale attrae perché è rimasta l’ultimo vero anticonformismo. Così il quarto film che ora è arrivato nelle sale è un po’ diverso: “Se nei precedenti – dice Introvigne –  è Edward a insegnare a Bella un valore morale, la castità prematrimoniale, qui è Bella a impartire a Edward una lezione molto delicata sul tema dell’aborto (…)Bella si scopre incinta. La prima reazione di Edward è la fuga di fronte a questa gravidanza che secondo gli antichi testi potrebbe produrre un mostro. Propone l’aborto, e sia i vampiri sia i loro nemici storici – i lupi mannari – cercano di persuadere Bella ad abortire. Ma Bella rifiuta e s’indigna quando altri parlano prima di “cosa” e poi di “feto”. Accetta solo la parola “bambino”. Esaltazione della vita, una parabola contro l’aborto. Immaginate se il film invece di trattare di vampiri, la protagonista era una ragazza cattolica che era rimasta incinta e non voleva abortire, secondo Introvigne l’avrebbero visto solo nelle sale parrocchiali. Ecco questo film potrebbe essere un ottimo test per noi cattolici di apprendere come si fa a parlare a un certo mondo in particolare quello giovanile.

 Subito dopo Riccardo Cascioli ha illustrato la campagna contro l’aborto de Labussolaquotidiana.it. Il direttore del giornale online ha fatto riferimento alla superficialità di come viene trattato oggi la questione dell’aborto anche nel mondo cattolico, in particolare si è perso il rapporto con la realtà. Hanno scritto che con la caduta del Muro di Berlino, sono scomparse le ideologie, invece con l’aborto, dove il bambino viene fatto a pezzi, l’ideologia è presente eccome, infatti si fa di tutto di oscurare l’atto abortivo con termini ambigui e politicamente corretti. Per Cascioli bisogna combattere la battaglia della realtà contro l’ideologia, occorre recuperare la chiarezza sull’aborto, anche nel mondo cattolico si è persa questa chiarezza. Cascioli è rimasto colpito dalle parole di Giovanni Paolo II a Rio de Janeiro dove il papa polacco con tono forte affermava che la battaglia del 3 millennio sarà intorno all’uomo, perché il maligno non potendo attaccare Dio attacco l’uomo. La battaglia è globale e intorno all’uomo.

 Dopo è intervenuto Luigi Amicone, direttore del settimanale Tempi, ha evidenziato dell’importanza della battaglia contro l’aborto intrapresa da Giuliano Ferrara attraverso il suo giornale. Il convegno ha toccato il suo vertice con la commovente e coinvolgente testimonianza di Paola Bonzi, fondatrice e direttrice del Centro di Aiuto alla Vita della clinica Mangiagalli di Milano, che in 27 anni ha salvato 13mila bambini. Il suo intervento ha toccato così nel profondo, che il direttore de Labussola decide seduta stante di dare uno spazio settimanale a Paola Bonzi nel magazine, per  raccontare frammenti di vita vissuta incontrando donne sul punto di abortire. 

Rozzano MI, 7 dicembre 2011

Festa di S. Ambrogio                                                                                                  

DOMENICO BONVEGNA

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Al risveglio intirizzita

La campagna al risveglio intirizzita,

un velo bianco che l’avvolge,

impresse sulle zolle le orme della notte,

si distende all’orizzonte

il rullio lento del giorno che riprende,

incalza nell’attesa la venuta del mistero,

è Lui che incombe imponendosi all’istante.

(Gianni Mereghetti)

Camminando verso scuola

Camminando verso scuola

nei giardini le luci del Natale,

nel silenzio

si distende la notte che finisce,

lentamente si destano i colori,

le parole si attaccano all’istante,

il segreto della vita raggiunge

la coscienza che sobbalza

nel risveglio del mattino.

Gianni Mereghetti

Il tempo non arretra

Il tempo non arretra d’un istante
come una foglia
che galleggia
trascinata dalle onde,
la nebbia d’improvviso
se n’è andata,
nella campagna i colori dell’autunno,
disperso il grigiore all’orizzonte.
La nebbia vela e svela,
si lacera lo schermo
che aveva oscurato la realtà,
s’impone la bellezza
tendendo i suoi tratti all’infinito   

(Gianni Mereghetti)

clericetti

Mi sono sempre piaciute le vignette di Guido Clericetti: quegli omini simpatici dalla sagoma accennata che si scambiavano battute ora divertenti ora sagge. E non ho resistito alla tentazione di ricordarle proponendone alcune trovate nel web: 
Guido Clericetti dal volume Finché c’è speranza c’è vita  

 

Guido Clericetti dal volume Finché c’è speranza c’è vita